Walter Benjamin
Orbis pictus, Scritti sulla letteratura infantile
Con quattordici tavole in nero e a colori fuori testo
A cura di Giulio Schiavoni
 
pp. 144, euro 22
 
Quarta
«Infatti, non sono tanto le cose a farsi incontro
– fuoriuscendo dalle pagine – al bambino
fantasticamente alle prese con le immagini, ma è piuttosto
il bambino stesso che – guardando – penetra in esse
come nube che si appaga dello splendore cromatico
dell’universo figurativo. Di fronte al suo libro illustrato
egli realizza la tecnica del perfetto taoista: domina la cortina
illusoria della superficie, e tra tessuti colorati e quinte variopinte
calca la scena dove vive la fiaba.»
Risvolto
«Perché colleziona libri?» Se anche il
bibliofilo Walter Benjamin potesse venire esortato a riflettere sulle
ragioni profonde che lo hanno indotto a raccogliere e a riabilitare una
letteratura marginale, o per meglio dire emarginata (cose quasi per
donne o per bambini, si sarebbe tentati di dire, secondo un vecchio
luogo comune), considerata «cartaccia» fino a di
recente, quale quella dei vecchi libri per l’infanzia, un
genere che si era diffuso tra i benestanti del ’700 e
’800, tesori costretti ad un sonno durato quasi cento anni
negli aggraziati mobili stile Biedermeier della prima metà
dell’Ottocento, le indicherebbe forse nel suo più
generale programma di un «salvataggio» di
testimonianze storiche (soprattutto di ciò che visse il
pericolo della scomparsa) e del «lascito del
passato» non per compiacere il gusto narcisistico di
accumulare stranezze, ma per captare in esse il compito del futuro. Era
una passione per i relitti di un passato ormai privo di contesto, per
quelli che egli chiamava «avanzi di un mondo di
sogno», rovine per le quali non c’era
più spazio nella storia dei moderni, verso le quali
– da Rimbaud e Baudelaire al Dada e ai surrealisti
– il pensiero europeo si stava volgendo, alle quali egli
tendeva per una «testarda protesta sovversiva contro il
tipico e il classificabile» e che egli
«salvava» per coinvolgerle nella strategia di
distruzione della continuità storico-culturale.
Ciò che è anacronistico conservò per
Benjamin il carattere di ricettacolo dell’autentico
emarginato dalla storia dei grandi eventi e, di conseguenza, la
capacità «anarchica» di testimoniare
contro la piattezza filistea che omogeneizza il tempo storico e sa
proporre solo l’apologia dell’esistente.
Dalla Postfazione di Giulio Schiavoni
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